NATURA DELL’ATTIVITA’ DI RISTORAZIONE IN CONDOMINIO

La ristorazione più che un’attività commerciale, può essere considerata un’attività industriale, per cui la clausola del regolamento che vieti le attività non commerciali può legittimamente escluderla.
Il caso: un inquilino esercente l’attività di ristorazione in condominio, unitamente al proprietario dell’immobile in locazione, impugnano una delibera condominiale con cui si decideva per la rimozione delle canne fumarie installate al fine dell’esercizio dell’attività di ristorazione nella medesima unità immobiliare, installazione già osteggiata in pregresse decisioni assembleari negli anni 2003 e
2004, con delibera altresì di inibizione dell’attività di ristorazione in base all’art. 9, comma 2, del regolamento condominiale, il quale vieta la destinazione dei negozi ad uso “diverso da … commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”. L’impugnazione è rigettata dai Giudici di merito perché l’attività di ristorazione è eterogenea rispetto all’attività propriamente commerciale, giacché caratterizzata dalla creazione di un risultato economico nuovo rispetto alla materia prima trattata, e quindi piuttosto da intendersi come attività industriale. 
Il caso giunge alla Suprema Corte che, con sentenza n.9402 del 4 aprile 2019, così decide:
Quanto al primo motivo di ricorso, circa la mancata previsione, nell’ordine del giorno della delibera assembleare impugnata, dell’argomento relativo alla rimozione delle canne fumarie, la Corte di Appello ha ritenuto tale argomento indicato nel punto 4 del medesimo ordine del giorno o comunque ad esso riconducibile (“delibere” da adottare in ordine alla “nuova attività” esercitata dalla B.B.C. Italia s.r.I.). La decisione della questione di diritto operata dalla Corte d’Appello è conforme all’interpretazione costante della giurisprudenza, consolidatasi prima dell’entrata in vigore dell’art. 66, comma 3, disp. att. c.c. (introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, e perciò qui non applicabile ratione temporis), secondo cui, affinché la delibera di un’assemblea condominiale sia valida, è necessario che l’avviso di convocazione elenchi, sia pure in modo non  analitico e minuzioso, specificamente gli argomenti da trattare sì da far comprendere i termini essenziali di essi e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni anche relativamente alla partecipazione alla deliberazione.
Circa il secondo motivo, è invece da ribadire come  l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero edificio, nonché ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).
In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare i negozi ad
uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l’esercizio dell’attività di ristorazione, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il
risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto.
In altre parole, a seguito della riforma dei motivi del ricorso per Cassazione, non può che prendersi atto della interpretazione resa dai Giudici del merito della clausola regolamentare, pur parendo in contrasto con la nozione che di commercio ha lo stesso legislatore.
La sentenza integrale è visionabile qui.
(10 m.ti w-l)

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